Onorevoli Colleghe e Colleghi! - Il 28 giugno 1969, a New York, per la prima volta gli omosessuali si ribellarono alle angherie e ai soprusi della polizia contro di loro e contro i locali e i luoghi da loro frequentati, che erano stati fino ad allora una costante della loro vita. A partire da quella data, assunta a punto simbolico di partenza, cominciarono ad organizzarsi, in tutto l'Occidente democratico (in Italia a partire dal 1971), i movimenti per la rivendicazione dei diritti umani e civili delle persone perseguitate o discriminate a causa del loro orientamento sessuale. Ed è intorno a tale ricorrenza che si svolgono ogni anno in tutto il mondo (o almeno in quella parte del mondo in cui esiste la libertà di manifestare) le manifestazioni del «Gay Pride»: una definizione che è di immediata comprensibilità nel quadro di una società tradizionalmente multietnica come quella americana, dove tali manifestazioni hanno avuto origine. Si tratta dell'orgoglio di non essere più obbligati a nascondere un'identità che una tradizione violenta e autoritaria voleva relegata e rinchiusa nel privato perché ritenuta vergognosa, quasi che un'identità ascritta alla personalità dell'individuo, che non viene mai posto nella condizione di «scegliere» il proprio orientamento sessuale (esattamente come non può scegliere il colore dei propri occhi e dei propri capelli), potesse essere valutata da un punto di vista morale. E invece risulta profondamente immorale, per la sensibilità liberale dell'Occidente contemporaneo, proprio l'idea che dei gruppi umani possano essere considerati inferiori, non degni dell'uguaglianza di diritti e della pari dignità sociale, perché caratterizzati da un'identità diversa da quella della maggioranza.
Dopo essersi a lungo illusa di essere immune dal razzismo solo perché mai realmente posta di fronte alla presenza di visibili diversità razziali, l'Italia ha cominciato